giovedì, luglio 12, 2007

Sul rito di S. Pio V

Si fa un gran parlare in questi giorni attorno al Motu proprio con cui il Santo Padre restituisce ai cattolici la possibilità di celebrare la S.Messa secondo il rito di S.Pio V, tra l'altro, mai ufficialmente soppresso. Per chiarire la mia posizione mi ha soccorso un brano, del libro che sto leggendo (e di cui intendo parlare anche in un prossimo post). Si descrive la sensazione provata da una giovane puritana inglese, in procinto di convertirsi al Cattolicesimo, mentre assiste per la prima volta al rito della Messa, celebrata in pericolosa clandestinità, da un prete reduce da atroci torture:

"L'attenzione di Isabel era così concentrata nell'ascoltare quel mormorio di parole latine e nell'osservare i movimenti del prete, che non aprì neppure il libro di preghiere imprestatole da Mrs. Margaret.
Sino allora il culto pubblico era stato per lei qualche cosa di affatto diverso, ed era consistito nell'ascoltare il predicatore dal pulpito, credendo che la sua parola dovesse avere un valore sacramentale sull'anima, o nel seguire le preghiere che egli recitava distintamente e con enfasi affinché l'intelletto dei suoi uditori vi assentisse con un sincero Amen.
Il ministro protestante era un ministro della parola di Dio all'uomo, era un interprete del Vangelo; qui invece il sacerdote si rivolgeva a Dio e non all'uomo, e per questa ragione parlava a bassa voce e in una lingua (il latino, nota mia) che come Campion aveva detto sul patibolo, "entrambi intendevano".
Inoltre, e qui stava la seconda fondamentale differenza, non era affatto necessario seguire parola per parola ciò che il prete diceva, poiché l'essenza di quel culto non consisteva nell'afferrare il significato delle parole, ma in un volontario e pieno assenso e partecipazione dei fedeli al supremo atto per il quale le parole erano sì necessarie, ma subordinate; era dunque l'atto che aveva valore presso Dio, e non già le parole.
E Isabel, nel pensare che per quei cattolici lì riuniti era di nuovo offerto a Dio il Sacrificio della Croce, si sentì, per quanto non intravedesse ancora che in modo confuso il sublime mistero, profondamente commossa.
Intanto Iddio, che dall'alto dei cieli aveva guardato con compiacenza fra le tenebre del Calvario allorquando vi si compiva l'atto supremo col quale il mondo veniva redento, guardava ora nell'oscura cappellina, dove si rinnovava il medesimo Sacrificio per opera di un uomo, il quale, in virtù della sua partecipazione al sacerdozio del Figlio di Dio, aveva il potere di pronunciare quelle impressionanti parole, per mezzo delle quali quel Corpo che era stato appeso in croce, e quel Sangue che da Esso era uscito, erano di nuovo esposti ai Suoi occhi sotto la specie del pane e del vino."

Sono rimasto colpito da queste profonde considerazioni, messe in bocca ad una neoconvertita da un autore, Robert Hugh Benson, figlio dell'Arcivescovo di Canterbury e anch'egli convertitosi al Cattolicesimo all'inizio del XX secolo. Solo un neofita, infatti, poteva descrivere con tanta sensibilità il fascino del mistero nascosto nella nostra religione, un mistero che si manifesta attraverso la liturgia.
Il libro di cui parlo (Con quale autorità?, 1997, Rizzoli, quinta edizione 2007 con introd. di Davide Rondoni) descrive cosa accadde in Inghilterra sul finire del XVI secolo, in quel tragico periodo, nel quale le guerre di religione portarono tanto dolore fuori e dentro all'Europa. In quel periodo, così triste, ma così denso di testimonianze, regnò anche San Pio V, il Papa che vinse a Lepanto.

PS: inoltrandomi nella lettura, scopro che la storia è a cavallo fra i regni di due grandi Papi, San Pio V, come detto, e Gregorio XIII, bolognese, di cui casualmente ho già parlato...

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