A proposito del Vaticano e degli omosessuali
Questa mattina, quando ho sentito la notizia, ho avuto come il desiderio di girarmi dall'altra parte. L'umana tentazione di dire: "Non conosco quell'uomo!". La radio diceva che il Vaticano si era opposto alla depenalizzazione dell'omosessualità, l'arcigay giudicava la cosa come un "atto di condanna a morte contro i milioni di gay e di lesbiche che hanno la sfortuna di abitare in paesi sanguinari". Volevo lasciar perdere, molto meglio stare un po' in silenzio, lasciare sbollire i furori e aspettare tempi migliori. Difendere il Vaticano con questo clima significava solo litigare ed esporsi come dei bersagli. Oltretutto qualsiasi difesa d'ufficio (ed alcune ne ho lette anche ben fatte: Andrea Tornielli qui e qui, Paolo Rodari, Rocco Buttiglione, e altri) presupponeva di dover convincere davvero tutti del fatto che la Chiesa Cattolica non possa essere favorevole alla pena di morte o al carcere per gli omosessuali. Ed è stato questo a farmi capire che sarebbe stato un comportamento da vigliacchi restare in silenzio. Perciò, più che una difesa di ciò che la Chiesa ha detto e soprattutto una spiegazione di ciò che non potrebbe mai dire; più che un debole grido di ribellione verso chi non può agire onestamente quando individua nel Magistero Cattolico la causa di ogni male; più che una disperata preghiera a porsi delle domande sul perché la Chiesa sia così ostinatamente controcorrente, su quale sia il vero scopo delle sue battaglie; ciò che sto scrivendo è in realtà un atto di espiazione. Un'ammissione della mia debolezza, germogliata da un falso rispetto umano, che stava per farmi barcollare, incapace di accompagnare la mia Chiesa lungo il difficile cammino che sembra allontanarla da tutti.
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